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1 Novembre 2017
1980 | Shining (S.Kubrick) e i movimenti di macchina
1980 | Shining (S.Kubrick) e i movimenti di macchina
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Shining di Stanley Kubrick è un film denso, ambizioso, che offre decine di possibilità interpretative e apre numerose domande. Cos’è lo shining? Chi lo ha? Cosa significa quell’ultima inquadratura? Mai come in questo caso lo studio dell’impianto visivo (in particolare dei movimenti di macchina) può aiutare a risolvere qualche dubbio.

ATTENZIONE: analisi che può contenere SPOILERS. Se non avete mai visto il film, leggete questo testo dopo averlo fatto.

Breve “inserto” sulle polemiche.

Shining è un film del 1980 diretto da Stanley Kubrick. Ci sono state varie controversie riguardo al film, principalmente dovute al fatto che Stephen King (lo scrittore del romanzo da cui il film è tratto) non si è mai nascosto dall’affermare che, a suo parere, l’opera di Kubrick va considerata più che come un adattamento dal suo testo, come un tradimento di esso.

A noi però interessa poco questo tipo di discorso e intendiamo, invece, basare la nostra analisi sul piano dell’interpretazione visiva (che ovviamente diventa anche contenutistica).

Introduzione

In Shining, la messa in scena di Stanley Kubrick è a tutti gli effetti una vera e propria lezione di regia.
L’analisi breve del film in questo testo si situa nel verso del legame che si stabilisce tra il movimento di macchina e la ricezione spettatoriale, decidendo quindi di utilizzare solo una delle miriadi di chiavi interpretative che possono essere chiamate in causa discutendo di questa eccezionale pellicola.
Kubrick instaura narrativamente nel suo film il concetto dello shining, la luccicanza, cioè delle vere e proprie allucinazioni che hanno il carattere sia di prevedere paranoicamente il futuro quanto quello di percepire ossessivamente il passato.
Questa peculiarità contraddistingue alcuni personaggi della narrazione e gradualmente tutti e tre membri della famiglia finiranno con il mostrarla: prima Danny (Danny Lloyd) che sembra possedere questa caratteristica fin dal principio del film, poi notiamo come questa luccicanza sia propria anche di Dick Hallorann (Scatman Crothers). Durante il corso del film vediamo Jack (Jack Nicholson) andare incontro ad allucinazioni nel momento in cui entra nella stanza 237 e trova una donna giovane che improvvisamente si trasforma in una donna anziana oppure nelle famose scene del “ballo” al bar, Wendy (Shelley Duvall) che nella corsa finale all’interno dell’albergo Overlook assiste a scene allucinatorie; o anche quando, nella versione originale americana, tagliata da quella italiana, entra in una vera e propria stanza degli spettri.

Infine, la famosa ultima inquadratura che con un movimento di macchina in avanti ci porta all’attestazione di una certa incongruenza nel punto di vista e conseguentemente nella narrazione: Jack Torrance era già in una foto di gruppo risalente ad inizio secolo stabilendo l’impossibilità narrativa (naturalistica) di quello che abbiamo visto.Shining last picture

La stessa qualità (!) d’incongruenza è giocata anche quando Jack dichiara a Wendy di non aver trovato nulla nella stanza in cui il piccolo Danny si è ritrovato graffiato e percosso sebbene noi sappiamo che qualcosa in realtà ha visto (c’è una certa difficoltà per noi esseri umani di non credere a quello che vediamo dovuta alla nostra evoluzione biologica: se i primati non avessero creduto a quello che vedevano, nei casi dei predatori che riuscivano a mimetizzarsi, probabilmente non sarebbero riusciti a sopravvivere). Allora la domanda è: il punto di vista di quella scena di chi è?

Danny and Shining

Quando Danny è sul triciclo e la steadicam lo segue dietro non rispettandone la velocità ma rallentando e accelerando come se fosse dotata di vita propria, chi rappresenta quella macchina da presa? Cosa ci vuole dire Kubrick quando, in presenza delle due bambine, Danny si arresta e la macchina da presa si ferma qualche attimo successivo al suo arresto concorrendo alla crescita del peso d’ansia e andando a rompere evidentemente con una certa tradizione di movimenti di macchina trasparenti e che praticamente scompaiono nella percezione spettatoriale senza farsi notare? Ancora, di chi è quel punto di vista?

La simulazione incarnata.

Prima di proseguire, dobbiamo fare qualche passo di lato per cercare di capire come vengono recepiti, generalmente, i movimenti di macchina.
Una teoria fondamentale di recente fondazione è quella della simulazione incarnata(1) che si situa per l’appunto sul piano della ricezione spettatoriale. Questa teoria si basa sulla scoperta dei neuroni specchio ed afferma che la percezione di un film in tutte le dinamiche si situa sul livello corporeo di simulazione motoria degli avvenimenti del film. Praticamente il nostro cervello (da intendersi come responsabile multimodale di percezione e ricezione nell’intero corpo e su dinamiche sub-personali e non solo riflessive), mediante la percezione e tramite l’attivazione dei neuroni specchio, comprende ciò che viene percepito attraverso l’utilizzo dei medesimi circuiti neurali che si attivano anche quando la stessa azione (in questo caso solo osservata) è agita in prima persona, con la differenza che quando colui che percepisce non è colui che compie l’azione quest’attivazione si arresta al livello della via cortico-spinale (che si attiva non in tutte le sue dinamiche) e quindi l’azione non viene prodotta realmente (imitandola) ma solo simulata. L’azione, l’osservazione di un’azione o anche l’immaginare di agire condividono praticamente gli stessi meccanismi e l’attivazione di reti neurali in parte simili.

Questa brevissima sintesi ci porta al fulcro del discorso: cosa ci dice riguardo ai movimenti di macchina e a Shining?
Sappiamo che il movimento di macchina in un certo senso tende ad enfatizzare il ruolo di partecipazione all’azione. Spesso la scelta stilistica che porta a disegnare un determinato contenuto con una determinata forma risulta in una creazione unica e affettiva.

Secondo Gallese e di una prassi comune di intendere i movimenti di macchina, questi devono essere “invisibili, lo spettatore non deve avvertire che la macchina si muova in maniera virtuosistica o innaturale, ma deve risuonare in maniera profonda (low-level) con il movimento, in modo da simularne in modo perfettamente aderente il portato di azione ed emozione”(2). Un tale processo è certamente riscontrabile nel cinema come norma – anche se forse applicato in maniera maggiore durante il periodo del cinema classico hollywodiano (ma anche in questo periodo ci sono enormi eccezioni).
Ma grazie anche ad alcune fondamentali pratiche cinematografiche che hanno tentato di offrire una rottura della “mimesi”, adesso non è più possibile limitarsi all’analisi di questo tipo di movimenti secondo questo paradigma di adesione. È chiaro che per lo studio neurobiologico è necessario rendere quanto più possibile aderente il movimento di macchina alla percezione quotidiana per offrire vicinanza tra i meccanismi quotidiani e quelli estetici. Lo stesso Gallese afferma che in alcuni casi la complessità di un movimento, la sua irriducibilità al nostro potenziale motorio (più che visivo), lo rendono opaco e visibile, ma questo non deve essere inteso come un limite estetico, bensì come un modo di ampliare gli strumenti comunicativi a disposizione di registi e di attivare processi cognitivi (di livello superiore) nello spettatore.
Se pensiamo a Shining infatti, l’ultima inquadratura esula dai fattori che rendono un movimento di macchina invisibile (così come accennato nell’inquadratura del triciclo) ed anzi ci pone un interrogativo proprio grazie a questa “opacità” e “visibilità”.

I movimenti di macchina

Il senso di partecipazione della mdp all’azione è esaltato dal fatto che il comportamento della stessa venga antropomorfizzato sia nelle intenzioni dei registi (ma non sempre) sia nella ricezione degli spettatori. Il comportamento della macchina da presa viene quindi recepito in maniera più umana che meccanica (nonostante in alcuni casi vi sia la possibilità di trascendere le possibilità della vista umana). In questo senso la trasparenza del movimento sarebbe da far ricadere ad una caratteristica pre-riflessiva dello stesso: praticamente esperiamo gran parte dei movimenti di macchina con lo stesso livello di coscienza con cui esperiamo il nostro stesso corpo.
Attraverso lo studio di EEG (3) e di esperimenti corrispondenti si è studiato i modi secondo i quali differenti tecniche di ripresa ottengono su di noi differenti effetti. L’obiettivo preciso dell’esperimento era quello di verificare se l’utilizzo del movimento di macchina nella condizione di osservazione di una stessa scena conducesse o meno a una differente risposta dei neuroni specchio: il risultato è stato che il movimento fisico e la riduzione della distanza da un oggetto ottenuta muovendo la mdp verso un attore o lo stesso oggetto determina (in grado maggiore rispetto alla staticità  della distanza) l’attivazione della simulazione motoria dei neuroni specchio, come se dunque fossimo noi percepenti stessi ad avvicinarci all’attore/oggetto, piuttosto che un oggetto meccanico come la mdp.
All’interno di questo panorama è risultato che la steadicam sia lo strumento che ha la maggiore efficacia nell’attivare il meccanismo dei neuroni specchio in quanto è il mezzo più simile all’andamento di un corpo e che si avvicina all’esperienza reale di qualcuno che si avvicina camminando, mentro lo zoom (avvicinamento per movimento ottico) è lo strumento che ha la minore efficacia rendendone quindi l’utilizzo e la percezione quasi irrealistico, come affermava anche Bernardo Bertolucci (In tal senso, sarebbe interessante analizzare un altro film di Kubrick Barry Lyndon che tanto si basa su questo strumento).
Per quanto riguarda la macchina handheld, seppur spesso si è inteso come questo strumento linguistico possa simulare la vista dell’essere umano data la sua caratteristica mobile, ciò non è vero in quanto il nostro processo mentale nella percezione del nostro movimento opera un filtro al nostro movimento, rendendolo più simile ad una steadicam che ad una macchina handheld. Il senso di realismo percettivo dato dalla macchina a mano è in realtà un effetto di secondo grado di una realtà non più esperita tramite i nostri occhi, bensì tramite gli occhi di un dispositivo di registrazione qualunque, uno di quelli che tutti i giorni sono presenti nelle nostre vite (e quindi si situa su un livello superiore di processi cognitivi). L’effetto di realtà è quindi dovuto più alla sensazione di impreparazione della scena, ripresa in maniera immediata da uno strumento immediato, che effettivamente di percezione che può definirsi vicina alla nostra quotidianità.

È dunque la steadicam che fa risultare sul piano percettivo una forma di inserimento del corpo dello spettatore nella scena, come se quel corpo fosse proprio di una figura umana attraverso la quale si attivano tutte le reti neurali che si attiverebbero nel caso in cui fossimo noi stessi presenti in quella determinata situazione. Questo può avvenire sia attraverso un personaggio, quando cioè noi percepiamo che il movimento è quello di un personaggio e sia, come nel caso di Shining, slegato da personaggi ponendo interrogativi sul soggetto il cui corpo è il portatore di quel punto di vista.

Lo sguardo nell’Overlook Hotel.

L’ Overlook Hotel (letteralmente l’albergo dello sguardo da sopra) è ovviamente una metafora che però, ed è questa la vera forza del film, non va in una direzione univoca ma si apre a numerose possibili interpretazioni.

Overlook Shining

Chi, all’interno della narrazione, possiede a tutti gli effetti questo potere di guardare dall’alto è Jack Torrance e Kubrick infatti lo mostra mentre guarda dall’alto un plastico del labirinto dentro il quale però è possibile vedere delle miniature in movimento di Wendy e Danny (mentre sono realmente nel labirinto all’esterno dell’hotel). L’unico problema è che Jack muore mentre il punto di vista continua a vagare indisturbato per la casa; potrebbe essere allora il punto di vista dell’autore (regista) che soprassiede tutto e muove tutti i fili, è vero, ma allora ci troveremmo di fronte ad un’opera che vorrebbe ragionare più sulle possibilità del regista di osservare e commentare (pur sempre una tesi assolutamente contemplata dall’ambiguità del testo), ma risulterebbe essere meno comunicativa verso uno studio preciso del regista stesso di una messa in scena diretta verso la ricezione dello spettatore. Sebbene ci siano numerosi casi nella storia del cinema in cui questo avviene non mi sembra il caso di Shining né in generale di Kubrick che è sempre stato un autore attento alle dinamiche dello spettatore, e anche attento a rendere quelle stesse dinamiche ambigue e per alcuni tratti indecifrabilmente personali e non generalizzabili.

L’ultima inquadratura infatti è diretta esclusivamente allo spettatore, allora chi contraddistingue questo famoso shining?

Lo shining.

Se come abbiamo visto i personaggi principali del film dimostrano ad un certo punto di avere tutti questa condizione allucinatoria, nell’ultima inquadratura e grazie agli studi sulla corporeità del movimento di macchina si potrebbe senz’altro affermare che anche la macchina da presa, mostrando una caratteristica di antropomorfizzazione, sia capace di poter vivere una propria condizione allucinatoria o aver mostrato finora proprio il frutto di un’allucinazione.
Se questo può essere vero è solo perché proprio il processo di assunzione di tale movimento (come corporeo anziché meccanico) è dovuto al lavoro dello spettatore.
Quindi, in conclusione, chi vive questa condizione allucinatoria e vive veramente questa luccicanza è infine proprio lo spettatore insieme al suo corpo.

Kubrick in un’opera nel quale sono magistralmente mischiati spunti psicologici (allucinazioni, l’unheimlich definito da Freud), spunti formali cinematografici, questioni e ambiguità narrative e tutto ciò che è possibile riscontrare in questo film, propone a tutti gli effetti un ragionamento sulla posizione dello spettatore al cinema: una posizione corporea, fisica, esistente e risonante a causa dei neuroni specchio (è vero, Kubrick non poteva ancora sapere questo, sebbene abbia scommesso interamente sulla fisicità del movimento di macchina) che acquisisce i tratti dell’allucinazione e del sogno (incubo) nel flusso mentale di ricezione di uno spettacolo cinematografico.

© 2016 – Labyrinth Production – opera tutelata dal plagio, deposito n° 45881 (Patamu)

 
 

NOTE:
(1) Vittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015
(2) Vittorio Gallese, Michele Guerra, op. Cit., p.141
(3) Vittorio Gallese, Michele Guerra, op. Cit., p.160

Non sapete che film guardare stasera? Per suggerimenti, date un’occhiata al nostro Dizionario dei film.

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