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29 Ottobre 2017
Michelangelo Antonioni e la direzione degli attori
Michelangelo Antonioni e la direzione degli attori
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Il saggio intende presentare un aspetto peculiare della filmografia di Antonioni. La mia intenzione non era quella di offrire un’analisi completa dell’opera di Antonioni in ognuna delle sue componenti (peraltro eccellenti).
L’interesse si situa dunque su un particolare metodo di lavoro e dell’aspetto della direzione degli attori nella più vasta operazione di messinscena. Particolare che rivela (e a volte sdogana) quali siano le tensioni sottostanti nel cinema di Michelangelo Antonioni.

Il cinema di Antonioni è sempre stato segnato da una profonda tensione formale che però, mai diventava aliena dal corpo specifico del testo narrativo, rendendo quindi vuote le critiche che lo accusavano di formalismo vacuo e nel senso quasi di un dannunzianesimo decadente.

Questa tensione (che diventa attenzione e cura) formale è riscontrabile in ogni composizione/inquadratura: per Antonioni lo spazio, come sappiamo, diventa elemento di composizione. Ciò che diventa quindi fondamentale è la relazione tra gli elementi dell’inquadratura.

Lo stesso Antonioni afferma: “perchè un’immagine sia essenziale è necessario che ogni centimetro quadrato che la costituisce lo sia a sua volta(1)”. Una costante del cinema di Antonioni è una struttura di racconto basata sull’antica suggestione del viaggio, che è “avventura, ripercorso, fuga, ricerca di identità”(2): e che è anche il motivo stilistico che spesso e volentieri muove la macchina da presa e la stessa narrazione (Professione: Reporter). Dunque tra i “materiali” della composizione (e quindi del racconto), figurano gli attori e la direzione degli stessi; il regista dice infatti che “l’attore è uno degli elementi dell’immagine”.

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È utile dunque iniziare il percorso dal primo lungometraggio di finzione del regista ferrarese che rappresenta quindi un punto di partenza importante. In “Cronaca di un amore” in una delle sequenze più famose (quella sul ponte) Antonioni imposta l’intera messinscena e quindi l’azione in modo che, quando Guido riassume a Paola il piano per uccidere il marito, lei si muova evasivamente allontanandosi da lui. La macchina da presa si posiziona al centro del movimento circolare della coppia, avviando una successione semplice ma efficace di panoramiche e carrellate. Non stacca mai, utilizza una continuità che rimane interna alla stessa immagine, rifiutando quindi il montaggio analitico e rivolgendosi esclusivamente al montaggio interno nella composizione. Entrando nel dettaglio ci si rende subito conto come all’inizio della sequenza Antonioni disorienti lo spettatore con un’immagine in campo lungo che sembra attribuire significato all’automobile che si vede in lontananza, poi la panoramica verso destra rivela Paola in primo piano. La macchina sta percorrendo la stessa strada che il marito di Paola farà la notte del delitto. Guido la raggiunge e le dice che il piano non fallirà. Nervosa, la donna si volta per evitarlo (nascondendo il viso) e cammina fino all’altro lato del ponte (sempre di spalle), lui la segue e quindi le volta le spalle mentre lei guarda con aria assente la strada dell’omicidio. Paola lo lascia ed esce di campo sulla destra del fotogramma, ma lui la raggiunge ancora. Nuovamente lei esce di campo e Guido più risoluto, l’affronta: le ricorda che hanno già ucciso una volta e che lei è stata sua complice. Lei però indietreggia e afferma: “tu l’hai uccisa!”. Guido allora entra in campo in maniera impetuosa e la schiaffeggia. La direzione della recitazione dimostra come per il fatto stesso che ci sia concentrazione esclusiva sull’immagine di lei, l’improvvisa entrata in campo di lui risulti molto più violenta ed aggressiva(3): una dimostrazione perfetta di come Antonioni costruisce la recitazione, più come movimento plastico che come recitazione emotiva. Bertetto afferma infatti che “Antonioni dirige l’attore non solo come un vettore rivelatore di un’interiorità, ma anche come un segno che dovrà essere coerentemente inserito in un quadro concepito secondo un principio di formalizzazione artistica”(4).

Si comincia quindi a delineare quella direzione degli attori che contraddistinguerà Antonioni nel corso della sua carriera: gli attori vengono fatti muovere facendo particolare attenzione alla loro posizione rispetto alla macchina da presa e agli altri oggetti presenti nell’inquadratura, che siano una parete o l’angolo di un palazzo, un mobile o un oggetto:“Io penso che l’inquadratura sia un fatto plastico, un fatto figurativo, tutto da vedere nella giusta dimensione.” – dice Antonioni – “La recitazione ha valore in rapporto all’inquadratura: una battuta detta da un attore a tre quarti, è diversa da una battuta detta di faccia o di profilo: assume un altro valore, un altro significato.”(5)

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Un esempio è riscontrabile nell’inquadratura nella sequenza iniziale de “L’eclisse” in cui Monica Vitti, nel ruolo di Vittoria, viene ripresa di spalle mentre si muove pian piano lateralmente, seguita dalla macchina da presa, davanti a Francisco Rabal (Vittorio), che resta invece seduto con lo sguardo perso nel vuoto, in maniera tale che la posizione di Rabal rimane fissa nell’inquadratura mentre la posizione della testa della Vitti e degli oggetti attorno a lui cambia(6). Compare in questo film anche una particolarità stilistica: I personaggi appaiono dopo che la macchina da presa ha già assestato il suo sguardo su uno sfondo. Questo motivo stilistico lo accompagnerà in tutto il suo percorso artistico (che andrà sempre più verso un senso di astrazione), come si può ben vedere dall’incipit di Identificazione di una donna che si apre con un’inquadratura incomprensibile. “Un arabesco è incorniciato e contraddetto da geometriche e regolari campiture. Ben presto su questo collage decorativo si inserisce l’azione: il protagonista del film entra nella propria casa. Lo vediamo dall’alto e ci rendiamo conto che la configurazione iniziale non è altro che il pavimento dell’ingresso circondato dal mobilio(7)”. Anche in questo caso, l’attenzione del regista è sulla materia che è oggetto di messa-in-forma a prescindere dall’organicità dei “materiali”.

antonioni3Le inquadrature del regista ferrarese dunque indagano lo spazio nel senso del movimento dei personaggi, che è studiato dentro il quadro, come per esempio nelle due sequenze de La signora senza camelie in cui sono ripresi dall’alto due momenti cruciali: il pubblico dopo la proiezione veneziana; i personaggi nella stanza dove Gianni ha tentato il suicidio.

Una volta attestato l’effetto della costruzione dell’inquadratura sul modo della direzione degli attori, è utile spostare poi l’attenzione sui metodi che Antonioni utilizzava nel portare gli attori a quello che lui desiderava da loro: essendo un materiale “plastico”, l’attore doveva rispondere ad una serie di indicazioni che mai andavano nel senso di un approfondimento psicologico del personaggio. Paradigmatica in questo senso l’esperienza di Jeanne Moreau in La notte: sembra quasi che Antonioni abbia deliberatamente evitato di dare informazioni alla Moreau sul ruolo di Lidia e sul film nel suo complesso, costringendola così a lavorare in senso contrario alla sua formazione di attrice di teatro classico (nel 1948 era entrata nella Comédie Française(8)). Antonioni le diede infatti pochissime spiegazioni, motivando il suo metodo di lavoro affermando: “Se questo comportamento è vero, esso nasce proprio dall’intenzione di considerare la recitazione come uno dei mezzi che serve al regista per esprimere un’idea, sia figurativa, sia strettamente concettuale. Mi sforzo, insomma, di sollecitare nell’attore l’istinto, più che il cervello”(9).

Dunque nella concezione dello stesso regista, c’è presente una precisa connotazione del ruolo dell’attore: più che il ragionamento, più che l’immedesimazione, Antonioni cerca l’istinto che rende tutto il meccanismo ben più realistico, ed è in questo movimento che si svolge costantemente tra la tensione formalistica e il concetto di realtà (che in Antonioni è istanza sottile e sofferta) che si risolve probabilmente l’intera operazione di messinscena del regista: nell’ordine sempre di una relazione (forse compenetrazione) tra un totale (ambiente, sfondo, socialità) ed un particolare (un determinato oggetto, un personaggio). Tinazzi infatti ci segnala che “come spesso avviene in Antonioni, la chiusura che ratifica la soluzione raggiunta s’impernia sull’uso del totale che immerge le figure in un ambiente significante”(10).

La realtà dunque, ma per capire come Antonioni si comporti alle prese con essa è bene soffermarsi su un’inquadratura del suo primo cortometraggio Gente del Po (che lo stesso Antonioni identificherà più tardi come la sua esperienza “neorealista”), inquadratura che retroattivamente può esser vista come un manifesto di poetica: una panoramica parte da un dettaglio (una falce), e nel suo percorso incontra altre figure femminili in campo medio, per poi assestarsi su un altro personaggio. Il regista, alla sua prima esperienza, dimostra così il suo interesse per le dinamiche che collegano l’uomo e l’ambiente (sociale, ma non solo), e gli influssi che un individuo ne riceve, ed è questo l’aspetto della realtà che sembra interessarlo. E’ infatti ovvio come l’inquadratura sia perfettamente preparata fin nelle posizioni degli attori, contrastando in un certo senso lo stesso canone “neorealista” che pure Antonioni non nascondeva a riguardo di questa sua opera. Così facendo dimostrava il suo tentativo di un allargamento dei confini entro cui il neorealismo fu relegato. In seguito, col richiamo a Blow-Up diventerà più chiaro il modo in cui può quest’inquadratura può essere intesa come manifesto di poetica, e quindi anche dell’ autoconsapevolezza del regista ferrarese a riguardo.

Un caso limite in cui questa frizione tra realtà e forma va in cortocircuito è il suo cortometraggio Tentato Suicidio nel lavoro collettivo organizzato da Zavattini L’amore in città: qui l’artificiosità (più che la messa in forma) dell’operazione è perfettamente riscontrabile nella recitazione dei protagonisti della vicenda. Il lavoro partiva appunto dall’intenzione di riprendere la realtà senza porre filtri o manipolazioni, ma si rivela ben presto artificiale e finto, proprio poiché gli “attori”, che erano peraltro le persone vere che avevano “inscenato” (sembra suggerire Antonioni) questi tentativi di suicidio. non si affidavano all’istinto, bensì provavano a rivivere le proprie sensazioni tentando di recitarle per la macchina da presa (con la speranza di un futuro successo): il risultato è terribilmente finto, ma probabilmente questo ha dato ad Antonioni la spinta necessaria ad impostare diversamente il lavoro con i propri attori, cercando di evitare quanto più possibile la consapevolezza del ruolo.

Se si tratta di metodo dunque, nella direzione degli attori così come in generale per tutta la creazione e la costruzione del film, quello di Antonioni risulta nell’incontro-scontro con la realtà: come dice infatti De Vincenti, “Il più «estetizzante» dei nostri cineasti e la più «costruita» delle nostre pratiche cinematografiche rinviano dunque, a un rapporto «libero» e «improvvisato» con la realtà(11)”. Antonioni era infatti solito preparare una sorta di canovaccio delle inquadrature, ma spesso le decisioni sulle inquadrature finali e sulle composizioni erano prese dal regista sul set stesso: era infatti solito vagare per la location in piena solitudine, presentandosi spesso in grande anticipo rispetto agli orari dati dalla produzione al resto dello staff. Con questa immersione nella realtà, il regista optava per una scelta estetica o per un’altra cercando di essere ricettivo nei confronti dell’ambiente che lo ispirava.

Il metodo risulta quindi, in particolare sul piano della direzione della recitazione, in una sorta di non-metodo con una flessibilità ed adattabilità a seconda dei casi, infatti “ogni attore richiede un trattamento particolare(12)”: violento quando si tratta di Lucia Bosè (addirittura schiaffeggiata sul set di Cronaca di un amore per farle raggiungere il livello emotivo ricercato(13)) o Betsy Blair per cui Antonioni ha dovuto “inventare cose di sana pianta, per capire cosa lei volesse sapere, per spiegare cose che non corrispondevano assolutamente a quello che io volevo dire(14)” o sempre per il Grido con Steve Cochran con il quale “bisognava seguire una strada opposta […] Ero costretto a dirigerlo con dei trucchi senza fargli capire quello che volevo da lui, ma cercando di ottenerlo con dei mezzi dei quali lui assolutamente non sospettasse(15).”

Dunque, la recitazione non è altro che un indice che ci racconta bene come il lavoro di Antonioni non si esaurisse nel contesto narrativo e nella messinscena organizzata fino al dettaglio in fase di pre-produzione, come ad esempio avveniva per un altro maestro come Alfred Hitchcock. La formazione e la creazione erano frutto di quello scontro con la realtà (in Antonioni, la realtà non di rado è resa stilisticamente come l’ambiente, il generale che preme sull’individuo) che spesso permetteva allo stesso regista, sicuramente ricettivo, di prendere direzioni estetiche nuove e in aperta rottura col resto della cinematografia internazionale. Sebbene, la funzione dell’attore all’interno dell’inquadratura può sembrare simile a quella messa in moto da Hitchcock nei suoi film (Jacques Aumont ci segnala : “La metafora perfetta [della messinscena di H., nda] può essere quella in Gli Uccelli con l’inquadratura di Melanie Daniels intrappolata nella prigione di vetro della cabina telefonica, e l’attrice a cui viene imposto non di recitare lo stato confusionale o la parola, bensì di schiacciare la mano e il viso contro il vetro e di farli combaciare con il vetro sbriciolato sotto il becco del gabbiano”(16)) la formalizzazione di Antonioni rende non tanto (e non soltanto) in un senso comunicativo della sensazione (in Hithcock oltre che per la sapiente composizione dell’immagine anche per prodotto dello stesso montaggio) bensì nell’allentamento puro dei meccanismi drammatici (elemento questo sempre presente in Antonioni, dall’inizio fino alla fine, passando anche per Il Mistero di Oberwald(17)) e in una forma compositiva che dimostra un equilibrio complesso tra l’individuo e l’ambiente, luogo questo che per il regista di Ferrara è dello scontro e della creazione.

antonioni4Le reazioni degli attori però non erano sempre, come si può immaginare, accondiscendenti. Sul set de “La notte” si vennero a creare due partiti: da un lato il regista e Monica Vitti e dall’altro Mastroianni e Jeanne Moreau, che già si lamentava della mancanza di indicazioni del regista (anche se Antonioni pur frustrando il desiderio della Moreau di comprendere la parte seconda la sua formazione di attrice, riuscì ad ottenere una un’interpretazione ricca di sfumature e di potenza emotiva) in merito soprattutto al trattamento privilegiato che la Vitti riceveva dal regista(18). Lo stesso Mastroianni confessò a Tullio Kezich di essere in procinto di scrivere una lettera ad Antonioni per tramite della quale l’attore aveva intenzione di “protestare, nero su bianco, per il modo in cui si comporta con gli attori. Non ti dice niente, non dà confidenza, tiene tutto per sé e ti tratta come un mobile di scena”(19). Lettera che poi in effetti inviò e che, Kezich ipotizza, Antonioni avrebbe cestinato. Non da meno il caso della fuga di Richard Harris prima della fine di Deserto Rosso(20). Il personaggio (e quindi l’attore) in alcuni film sembra entrare casualmente nell’ordine delle cose, come ad esempio il personaggio di Monica Vitti ne L’avventura, che intorno al terzo minuto della pellicola, entra in scena quasi casualmente, sullo sfondo e camminando da destra verso sinistra si va a collocare alla sinistra del profilmico, svelata poi successivamente dal movimento della macchina da presa che segue lo stesso corso. Il personaggio è lì ed è scoperto proprio ed esclusivamente per la presenza della macchina da presa.

La recitazione e la direzione degli attori in Antonioni è quindi sempre portatrice del senso che il regista dà al ruolo dell’individuo all’interno delle storie (e della storia più in generale). Emblematico è in questo senso l’inizio di Zabriskie Point con la riunione del collettivo trattata con uno stile documentaristico, lasciando che ambiente ed individuo siano fusi in un’unica istanza (la riunione è infatti contro “l’individualismo borghese”), ma nonostante questo l’emersione di una figura (Mark) riporta tutto l’incipit nel classico “set-up” di Antonioni. Mark si muove al confine con il contesto, ha voglia di essere più incisivo, di non aspettare che le cose siano al punto più basso per agire, e così si colloca in rottura rispetto al contesto sociale; ma ancora più importante per definire il ruolo è la presentazione del personaggio di Daria: a lei, nella sua prima scena, è vietato l’accesso ai piani alti, escludendo dunque la possibilità di un movimento verticale (o anche di ascesa “sociale”) che le viene permesso (quasi come se fosse un piacere personale) da Lee Allen (Rod Taylor, già attore per Hitchcock in The Birds). La caratterizzazione quindi del personaggio avviene su delle coordinate spaziali e di movimento, e assolutamente senza alcun peso sul lato emotivo-patetico: è naturale dunque, in quest’ottica, che i personaggi e la recitazione degli attori siano sempre ed esclusivamente da ascrivere al movimento, allo spazio, e in ultima istanza alla forma dell’immagine cinematografica stessa che non è altro che movimento. In maniera ancora più specifica, la dimostrazione sta proprio nel fatto che i due protagonisti della pellicola condividono ed emergono proprio a partire da un’assenza di movimento: verticale, come già accennato, per Daria; mentre per Mark l’assenza di movimento non risulta su un vettore verticale o orizzontale bensì si designa nella stasi che attanaglia il collettivo preso più nelle speculazioni che nell’azione stessa e che quindi si predispone come reazione e non come azione.

“Michelangelo” -afferma Kezich- “era puro cinema”(21) ed i contrasti che si venivano a creare con gli attori che invece avevano una formazione maggiormente filodrammatica (come Mastroianni per l’appunto(22)) non sembrano così assurdi: Antonioni ha sempre affermato, a ragione nel suo cinema, che l’unico che può avere un’idea sul film intero e che quindi sa come gestire tutto il “materiale” che gli si pone davanti in fase di composizione è proprio il regista da intendersi quindi come l’unico in grado di conoscere e di predisporre il movimento delle inquadrature e del film intero quindi. Non l’attore, la cui intelligenza può diventare un fattore di rischio contro l’unità stilistica del testo stesso poiché la mina nelle sue fondamenta inserendo una “creazione” che il cinema di Antonioni non cercava e di cui aveva paura.

Una sequenza di Blow-Up, che echeggia l’inquadratura prima affrontata di Gente del Po, ci presenta quindi il regista ferrarese alle prese con l’analisi della sua idea di lavoro, dei suoi interessi e delle sue difficoltà: ad inizio film Thomas ha due vere e proprie sessioni di fotografie allo studio (la seconda a dire il vero, a causa di una cesura forte nella messinscena sembra dividersi in due micro-sessioni). Nella prima sessione, Thomas ha un contatto individuale con la donna e mette in scena il proprio desiderio (e quindi una facoltà più istintiva che razionale nel rapporto con l’Altro) e anche una certa consapevolezza del suo mestiere (il rapporto sembra addirittura risolversi in una simulazione di un rapporto sessuale e la simulazione costituisce un valore forte nel film); nella prima delle due micro-sessioni che identificavo prima, il fotografo è alle prese con una foto di gruppo. Quello che blocca il fotografo nel suo lavoro è l’evidente caos che si para dinanzi ai suoi occhi. La stessa disorganizzazione (sociale in questo caso) disorienta Thomas che non riesce a trovare spunti interessanti. La questione viene quindi risolta nella seconda micro-sessione che vedrà un gruppo infine messo in forma, ordine che gli viene donato dalla composizione artistica. Diventa quindi evidente il rapporto che la sua “creazione” cercava con la realtà, e il rischio che in un certo senso ad essa (e alla sua unità) portava una possibile “seconda” creazione ad opera degli attori.

antonioni5E se in Blow-Up, il senso può sparire fino ad essere pura simulazione e spingersi fino alla sola apparenza, può infine compiersi uno degli atti più estremi di Antonioni: la scomparsa e l’astrazione definitiva del (e dal) personaggio. Professione: Reporter (The Passenger) ruota intorno all’identità (e alla ricerca) del protagonista (Jack Nicholson) e proprio nella sequenza finale (una delle sequenze che più ha scatenato la curiosità, essendo girata in una maniera eccezionale con un magistrale pianosequenza(23)) ci rendiamo conto che non resta più alcun personaggio: lo stesso sguardo della macchina da presa è ormai totalmente libero dal personaggio e vaga fluttuando come in attesa del destino che è pronto a compiersi. Sono oltre sei minuti di puro movimento visivo (contraddistinto chiaramente da un’incredibile preparazione ed organizzazione) e quando l’inquadratura completa una rotazione di 360° vediamo che il protagonista è ormai morto nella sua stanza. Quello che resta è solo la forma, la creazione artistica (che sembra figlia della distruzione) e un personaggio che sempre più nel cinema di Antonioni sembra definitivamente astratto e non più materico. Il cinema, nelle sue forme materiche che erano ormai risultato di un’operazione di astrazione, diventava ancora una volta, nelle sue mani, puro movimento. E la cosa più onesta da fare è lasciare spazio alle immagini.

NOTE:
(1)Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere, Marsilio Editori, Venezia, 2009, p. 125
(2)Ibidem, p. XIII
(3)David Bordwell, Kristen Thompson, Storia del cinema e dei film, McGraw-Hill Companies, Milano, 2010, pp.506-509
(4)Paolo Bertetto, a cura di, Azione!, minimum fax, Roma, 2007, p. 28
(5)Michelangelo Antonioni, op.cit., p. 9
(6)David Forgacs, Michelangelo Antonioni in Azione!, Paolo Bertetto (a cura di), minimum fax, Roma, 2009, p. 206
(7)Giorgio de Vincenti, Michelangelo Antonioni e la pittura del secondo dopoguerra, in Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche editrice, Parma, 1993, p.199
(8)Ibidem, p. 207
(9)Michelangelo Antonioni, op.cit., p. 17
(10)Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Il castoro, Milano, 2013, p.79
(11)Giorgio de Vincenti, op.cit. , p.208
(12)Michelangelo Antonioni, op.cit., p.48
(13)David Forgacs, Michelangelo Antonioni in Azione!, Paolo Bertetto (a cura di), minimum fax, Roma, 2009, p. 212
(14)Michelangelo Antonioni, op.cit., , p.10
(15)Ibidem, p.11
(16)Jacques Aumont, Alfred Hitchcock, in Azione!, Paolo Bertetto (a cura di), minimum fax, Roma, 2009, p. 98
(17)Giorgio Tinazzi, op.cit., p. 115
(18)Tullio Kezich, La presa del potere dei dir-actors, in Azione!, Paolo Bertetto (a cura di), minimum fax, Roma, 2009, p. 49
(19)Ibidem, p. 50
(20)Ibidem, p.52
(21)Ibidem, p.51
(22)ivi
(23)Un resoconto è nel testo citato Fare un film è per me vivere


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