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19 Aprile 2020
Apocalypse Later, please! | Death Stranding
Apocalypse Later, please! | Death Stranding
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Apocalypse Later, please! è una sezione di questo sito che intende, in questi tempi particolari, offrire un consiglio su che film guardare: oggi non si tratta di un film, ma di un gioco “Death Stranding”

Premessa su questa “rubrica”.

In questi tempi complicati, difficili e senza precedenti che prescrivono un tempo (al momento ancora indefinito) di isolamento e di chiusura all’interno delle proprie case, abbiamo pensato che avremmo potuto suggerire modi per usare questo tempo cercando di capovolgere la sensazione “apocalittica” che al momento avvolge di nebbia le nostre vite. Proveremo a trasformarla in qualcosa che possa farci pensare, anche ridere, “esorcizzando” la paura e le angosce.
Ogni giorno (o quasi) – sperando di mantenerci sani ancora a lungo [diavolo, questa è esattamente quella sensazione, quel pensiero che stiamo cercando di “esorcizzare”] – vi scriveremo di un film [ndr: oggi si tratta di un gioco] che per un motivo o per un altro ci sembrerà interessante da guardare o riguardare e che ha a che fare (anche se magari solo metaforicamente) con il concetto di Apocalisse (e le misure prese), così come trattato al cinema. Speriamo che possa aiutarvi a passare il tempo e chissà magari anche a farvi una risata – possibilmente spoilers free.

La scelta di oggi: Death Stranding

HIGGS: È difficile creare connessioni se non puoi stringere mani…

Higgs in “Death Stranding”
Introduzione

Death Stranding non è un videogioco come tutti gli altri. Anzi, nel designarlo come “semplice” videogioco si corre il rischio di adottare un punto di vista concettualmente riduzionista che non terrebbe conto della portata reale di quest’opera: siamo infatti di fronte a un’esperienza trasformativa in piena regola.

L’ultima creazione del celeberrimo game director Hideo Kojima, la mente geniale già dietro la serie Metal Gear, è un eccezionale lavoro per quanto riguarda world design, storia, scrittura e direzione artistica; è un capolavoro, un’odissea digitale capace di unire perfezione stilistica e concettuale riuscendo nel contempo a garantire un’esperienza coerente dall’inizio alla fine.

Death Stranding è un’opera d’arte visionaria il cui svolgimento si situa in un futuro prossimo in cui un evento cataclismico, il “Death Stranding” del titolo, ha appena avuto luogo. Questo evento catastrofico ha portato alla nascita delle misteriose CA, spiriti ostili all’uomo, dispensatori di morte, manifestazioni e presagi della Sesta Estinzione che prendono forma; la presenza di questi fantasmi aggressivi ha costretto gli umani a rintanarsi nelle proprie città e ad allontanarsi dai propri simili. Nel mondo di Death Stranding, se anche un solo essere umano muore, infatti, si innescherebbe un voidout, un’esplosione atomica che si verifica ogni qualvolta una persona muore e che può avvicinare fatalisticamente l’essere umano all’estinzione. In questo scenario, gli esseri umani sono confinati, impossibilitati a muoversi per non correre rischi, con la perdita di una sola vita che può avere conseguenze drammatiche.

Il gioco si svolge quindi appena dopo un evento catastrofico di incommensurabile gravità ma poco prima della Fine ultima, proprio nel mezzo dell’apocalisse in cui gli umani non hanno il permesso di morire, intrappolati nelle proprie città, impossibilitati a formare relazioni significative con gli altri e cercano soluzioni per tamponare l’estinzione in atto.

È evidente come, dato questo contesto così peculiare, ci siano molti paralleli tra la visione di Kojima e ciò che sta succedendo ora nel mondo alle prese con l’epidemia da Covid-19; la differenza è che il gioco è uscito a Novembre 2019, prima che l’epidemia entrasse nella nostra realtà, prima ancora che la sua minaccia fosse anche solo immaginata. Kojima è riuscito profeticamente a prevedere molte delle sensazioni che stiamo vivendo oggi. Guardare il trailer per crederci:

Ma come ha fatto? Quali sono le dinamiche proprie a Death Stranding che ricordano la situazione che stiamo vivendo attualmente? Per poter rispondere, diamo uno sguardo al game design e all’idea fondamentale che sorregge il gameplay.

Game Design

Nel mondo di Death Stranding le persone, seppur impossibilitate a muoversi, riescono a sopravvivere grazie ai corrieri. Si tratta di corrieri coraggiosi, capaci di viaggiare da una città all’altra, di lottare e vincere contro il pericolo mortale delle CA e di portare le risorse essenziali da un posto all’altro. (Un po’ come i corrieri di Amazon, solo un po’ meglio…)

Il giocatore in Death Stranding è Sam Bridges (interpretato dal bravissimo Norman Reedus in quello che è forse il miglior ruolo della sua carriera), un corriere leggendario, incaricato dal Presidente degli USA, Bridget Strand, con una missione di capitale importanza: riconnettere il mondo diviso dall’apocalisse in atto, e dunque far riavvicinare le persone come “prima del Death Stranding”. Per poterci riuscire, Sam deve viaggiare da città in città e connettere ogni singolo avamposto al server principale, chiamato “Network chirale”.

Il gameplay si basa sul giocatore che si ritrova a vagare da una città all’altra in scenari naturalistici che ricordano molto da vicino quelli delle bellissime scogliere vulcaniche dell’Islanda, mentre si imbarca in un incredibile viaggio solitario in cui dovrà combattere contro le CA e contro una serie di “cattivi” veramente ben caratterizzati che si oppongono a questa missione in termini filosofici e pratici.

Qui è dove la magia di questa esperienza trasformativa si presenta in tutta la sua potenza: Death Stranding è un gioco sull’importanza delle relazioni umane, ma anche sull’importanza della solitudine. Gli esseri umani sono animali sociali ma, allo stesso tempo, devono imparare a restare soli, a godere della propria solitudine; devono, in un certo senso, imparare a “bastarsi”, ad accettare la condizione di solitudine come integrata all’esistenza. Ovviamente, il rovescio della medaglia resta che, accanto a questa istanza individuale, l’uomo ha bisogno dei suoi simili, non può vivere senza la relazione, non può costitutivamente rinunciare al grande Altro per restare in vita. Sam Bridges, il protagonista, incarna perfettamente questo conflitto: è un corriere, un connettore, letteralmente un costruttore di ponti, colui incaricato di riconnettere l’America. Ma è fondamentalmente un individuo solo, impaurito di aprirsi all’altro, di formare relazioni e connessioni emotive; ha addirittura paura di essere toccato. In questo senso, Sam Bridges incarna lo stereotipo del videogiocatore solitario che autisticamente si ritira nella propria camera per giocare ininterrottamente per diverse ore. Avendo tutto questo in mente, Kojima ha optato per inserire nel gioco un’esperienza online asincrona in modo da permettere a ogni giocatore di influenzare le partite di tutti gli altri. L’idea è semplice e brillantemente eseguita: ogni giocatore, facendo qualcosa di “banale” come montare una scala per salire su una roccia o costruire un ponte per attraversare un fiume, può aiutare altre persone che giocano in quel momento perché il sistema online farà in modo che questi oggetti appaiano anche nel mondo degli altri aiutandoli a superare gli ostacoli. In questo modo, i giocatori si aiutano a scalare montagne, a superare pericolosi corsi d’acqua, a combattere i nemici, e così via. Senza toccarsi. E solo così, aiutando e contando sull’aiuto degli altri, il giocatore può arrivare alla conclusione del gioco.

Il messaggio è chiaro: giocando a Death Stranding, il giocatore apprende il valore della propria solitudine, comincia a godersi le infinite passeggiate nei magnifici paesaggi naturali e la splendida musica (la soundtrack del gioco è stellare) ma, in fin dei conti, è solo tramite l’azione collettiva che il mondo può effettivamente cambiare. Solo smettendo di essere isole, smettendo di odiarci e iniziando a lavorare insieme per un scopo comune, contrariamente a ciò che si vede nell’epoca dell’hating compulsivo da social media, si può veramente fare qualcosa di importante. Il punto focale è che solo quando impariamo a stare soli per davvero, quando ci “bastiamo”, solo in quel momento diventiamo paradossalmente in grado di stare con gli altri. E questo è ciò che succede in Death Stranding, questo è il salto che Kojima fa fare al videogiocatore, quel salto dall’ ”io” al “noi”, quella trasformazione dell’entità individuale legittima e quasi-autosufficiente ma in ultima istanza bisognosa di essere parte di una collettività per raggiungere il proprio potenziale. È questa la valenza trasformativa di questa magnifica esperienza.

Quindi, perché abbiamo scelto questo gioco per “Apocalypse Later, please”?

Fatte queste considerazioni sul messaggio centrale del gioco, è evidente come molti elementi che caratterizzano la narrazione di Death Stranding ricordano molto da vicino – in maniera inquietante – ciò che è successo nella nostra vita negli ultimi mesi. Al posto delle CA, c’è la pandemia globale; al posto dell’America descritta nel gioco, c’è l’intero pianeta. In questo momento, nella vita di tutti i giorni, le persone sono chiuse in casa e ogni connessione è di fatto impossibile. A causa della pandemia, c’è chi è costretto a fare i conti con la solitudine (i più fortunati riescono anche a riscoprirne la bellezza intrinseca). Ma c’è anche chi è impaurito del futuro come mai prima d’ora, ha paura di non rivedere le persone amate, di perdere ciò che aveva prima, di veder disgregata l’esperienza sociale distintiva che finora ci ha caratterizzato come genere umano. Il fantasma dell’estinzione ha paradossalmente avvicinato tutti nella lontananza propria a questa terribile esperienza condivisa. Lo stesso fantasma compatta la comunità umana risvegliandone lo spirito di cooperazione, di unione tra persone che smettono di essere isole e imparano a ragionare e ad agire all’unisono.

Ognuno di noi, in questo momento, è convinto che solo se agiamo insieme, solo se i nostri sforzi sono collettivamente integrati, allora, solo in quel caso, sarà possibile sconfiggere l’invisibile nemico comune.

Death Stranding ci conferma questa visione e ci insegna che la vera catastrofe di questo tempo si può spiegare modificando leggermente la famosa frase del poeta T.S. Elliot: “Il mondo non finisce con uno schianto, ma con un lamento”.

Ecco, il discorso è che non è lo schianto, non è il “Death Stranding”, non è la pandemia in sé, non è il collasso economico, non è il disfacimento materiale della nostra società.
Il mondo finisce davvero non con uno schianto, ma quando non possiamo più stringere mani.
Il mondo finisce davvero quando non possiamo più abbracciare i nostri cari.

Per poter approfondire le tematiche del gioco e la sua profonda filosofia consigliamo di giocarci e vivere l’esperienza trasformativa che Hideo Kojima ha regalato al mondo. Chissà, potrebbe essere un buon antidoto per l’ansia da quarantena. Da giocare subito, lo potete trovare su Amazon e farvelo portare da un bravo corriere…


Non sapete che film guardare stasera? Per suggerimenti, date un’occhiata al nostro Dizionario dei film.

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